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Psicoterapia cognitiva sistemico-processuale e ciclo di vita individuale

di Vittorio Guidano
si ringrazia il dott. G. Cutolo per la concessione del materiale

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Domanda: Stavo riflettendo, mentre parlavi, sul ruolo del terapista: mi mettevo al posto del terapista, cosa provava…si parla di un film, il terapista sembra quello che fa il regista. Però, in questo tipo di regia, non mette emozionalità, se ho ben capito... quindi in pratica diventa un tecnico, un ricostruttore. Qui vedevo le basi di quel "burn-out", che un buon terapista non dovrebbe avere…la domanda è: che tipo di formazione personale deve avere il terapista per poter adattarsi a queste cose?
Guidano: E’ difficile rispondere a questa domanda, non si sa bene. Oggi si comincia ad intravedere questo aspetto, cosa che prima era impensabile: il problema cioè di come poter controbilanciare o poter prevenire il possibile “burn out” oppure tutti gli altri disturbi “professionali”. Un problema molto grosso, ad esempio, che non fa ancora parte del burn out, è che questo è un mestiere che ad alcuni produce un vero e proprio effetto di spersonalizzazione. Perché il terapista più è bravo, e più diventa un professionista nel cogliere il punto di vista degli altri, ed è talmente bravo e professionista nel cogliere il punto di vista degli altri, che ad un certo punto è come se non ne avesse più lui uno, di punti di vista. Diventa, per altri versi, come un attore che reciti 24 ore al giorno e quindi non ha più ben chiaro che cosa sarebbe lui senza recitare. Questa spersonalizzazione è il problema più grande, è quello che produce i più grossi problemi anche nell’entourage familiare del terapista. Il terapista spersonalizzato, professionista nel cogliere il punto di vista degli altri e nel non averne mai uno, è una persona che non solo non ha mai una sua opinione, una sua espressione di sé, ma è uno che ha sempre e soltanto un atteggiamento di spiegazione, con totale perdita di immediatezza… torna a casa, il figlio gli fa un capriccio e lui gli spiega perché i capricci non si fanno… Da questo punto di vista qui il problema è come individuare questo terapista, poi che farci una volta averlo individuato, come curarlo, quindi come si possa prevenire tutto questo. Lo dico perché molti di questi articoli, di questi studi alla fine danno dei consigli, ma sono delle cose ridicole, fatte all’americana, tipo “…allora la regola più importante è che non devono frequentare altri terapisti, devono andare a cena con avvocati, architetti...": questo tipo di consigli traduce il fatto che non sappiamo bene ancora niente su questo.
Domanda: A proposito di rischi che può correre il terapista, non può essere anche per il fatto che entra in un sistema addestrativo... .per esempio io stavo pensando a certe strutture ossessive di pazienti i quali, già di per sè sono propensi all'automatismo, all'ipervigilanza, al controllo... e quindi.... io non ho molta esperienza di terapia cognitivista.. .Lei ha usato molto spesso la parola "addestramento "....non è proprio il meccanismo addestrativo a favorire un eccesso di controllo, sia nel paziente che nel terapista? Insomma, quale consapevolezza deve avere questo terapista ?
Guidano: Il problema è duplice. Nel paziente, generalmente, non viene esercitata nessuna enfasi sull'aumento del controllo, anzi generalmente si tende a fare l'opposto. Il problema è quello di fare mettere a fuoco, far riconoscere e riordinare le emozioni che sono già presenti in coscienza, ma che il paziente non riesce a riferire a sè, quindi l'attenzione viene proprio spostata su zone cui generalmente non si guarda mai, e solo su quelle. Lei faceva riferimento ad un paziente ossessivo. Gli ossessivi possono avere degli scompensi clinici, con ruminazioni, rituali, in una situazione che produce loro rabbia, che è un emozione che una volta prodotta non si può disattivare, ma che è impossibile per loro riconoscere, non fa proprio parte dell'immagine di certezza di sè, da cui è esclusa appunto ogni forma di rabbia. Qui il lavoro non è andare a metterlo in discussione, è semplicemente di prendere le situazioni "incriminate" ,che appaiono chiarissime; c'è una diretta corrispondenza quando gli è esposta una situazione che gli produce rabbia e le ruminazioni e i rituali che appaiono subito dopo; quindi il lavoro che si fa è quello di far mettere a fuoco, far riconoscere e farsi riferire queste specifiche esperienze di rabbia con il minimo di consapevolezza necessaria su quel settore specifico. Poi il discorso è allentargli i controlli, che lui non riesce a vedere: perché c'è una visione talmente rigida, un immagine stereotipa di sè, nelle quale non c'è nessuna flessibilità. Anzi il lavoro è tutto nell'aumentare la flessibilità nel paziente, di vedersi da più punti di vista. Per quanto riguarda il terapista, non lo so cosa deve fare questo terapista, è il suo stesso mestiere: questi studi qui non è che erano studi che riguardavano un orientamento terapeutico, l'orientamento non faceva differenza, è proprio il mestiere in sé. Può sembrare strano dirlo, ma noi nella nostra società occidentale tecnologicamente avanzata abbiamo sempre conservato una figura che sembra importante in tutti i gruppi umani, dai primitivi ad oggi, che è la figura dello sciamano, del sacerdote, del curatore, ed è sempre una figura che fa parte del gruppo ma che è diversa dal gruppo e non può essere come il gruppo, perché se fosse così perderebbe questa capacità taumaturgica. Uno degli aspetti di cui i terapisti si lamentano sempre, per cui si sentono terapisti anche quando non fanno il loro lavoro, è l'effetto che fa sugli altri, quando sono in pubblico, sapere il lavoro che loro fanno. E'lì che ti riportano le sensazioni di maggior solitudine. Se sono ad un party, fin che la gente non sa che lavoro fanno... possono essere architetti, ingegneri, ecc., il comportamento è normale; appena sanno che lavoro fanno, metà persone si chiudono e l'altra metà si aprono; tanto che molti terapisti, io stesso lo faccio, mentono, non dicono che lavoro fanno, (“che fai?”): una metà si chiude, ma con l'altra metà iniziano le sedute…